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giovedì 19 maggio 2016

Intervista a Pierluigi Monni, cofondatore e padre del Piano di Lottizzazione di Poggio dei Pini

Pierluigi Monni e
Giampiero Atzori nel 1966 
Come venisti coinvolto nell’idea di realizzare quello che poi sarebbe diventato Poggio dei Pini?

Una mattina, me lo ricordo ancora, ero a Cagliari, vicino al Tribunale, e incontrai Alberto Marracini. Credo che fosse il 1965, io avevo meno di trent’anni ma ero già un professionista abbastanza affermato, ero allievo di Mandolesi e Valori, insegnavo all’Università e avevo già un mio studio di progettazione. Marracini sapeva ch’ero un appassionato di pianificazione urbanistica, stavo lavorando a uno studio sull’architettura agricola e mi raccontò dell’idea che stavano coltivando insieme all’amico Ettore Lai. Mi presentò a Ettore, vero motore di tutto il progetto, quindi coinvolgemmo Giorgio Mundula e, nelle lunghe nottate al bar dell’Excelsior, all’ultimo piano del palazzo della Rinascente, prese forma il progetto di una vera e propria città giardino, la cui realizzazione avrebbe dovuto ispirarsi a quello spirito cooperativistico che allora, negli Anni Sessante, era molto sentito. Partecipai poi ai sopralluoghi a nord di Cagliari, ma la nostra attenzione si concentrò fin da subito sull’azienda agricola Saggiante, a Capoterra.
Era una bella azienda agricola, mentre la zona di Bellavista era boschiva, non c’erano praticamente strade, eccetto quella che saliva a S.Barbara. Partecipai poi alle trattative per l’acquisto dell’azienda agricola, di proprietà di Donna Maria Saggiante. Ricordo che nella villa rustica, che poi divenne sede della Cooperativa, c’erano camere con montagne di carrube. C’era tutto da fare, ma eravamo pieni di entusiasmo. L’unica cosa che ci affliggeva, ricordo, erano le zanzare: alla fine delle giornate di lavoro, trascorse fino al tramonto a tracciare strade, tornavamo a casa febbricitanti, come affetti dalla malaria!

Hai parlato di città giardino. A quali modelli ti ispirasti per progettare Poggio dei Pini? Si è spesso parlato di un certo influsso statunitense.


No, direi proprio che il modello statunitense non c’entra. Negli USA si ragiona su ampi spazi e l’uso dell’auto è quasi imprescindibile: vi sono estesi quartieri costituiti solo da case e i servizi sono distanti, le persone vanno a lavoro in auto, tornando a casa si fermano in un supermercato per fare la spesa e così via. Non era quello che volevamo, volevamo qualcosa di più integrato. Il modello urbanistico di riferimento furono piuttosto le new town inglesi e scandinave, periferiche rispetto a un grosso centro urbano, attrattore degli interessi lavorativi principali, ma al tempo stesso autosufficienti per quanto riguarda i servizi, l’istruzione, lo sport, lo svago. Una città giardino a misura di famiglia, insomma, con un particolare riguardo per le esigenze dei bambini e degli anziani e dove l’auto, appunto, non fosse indispensabile.

Infatti osservando il Piano originario si ha l’impressione che Poggio dei Pini sia stata concepita come una vera e propria città in miniatura, che comprendeva tutti i servizi immaginabili, dall’ospedale al cimitero, dalla stazione dei Carabinieri al night club…

Esatto: una cittadina autosufficiente, anche considerato che Cagliari, a quel tempo, risultava piuttosto lontana, non c’erano i collegamenti d’oggi, quindi bisognava consentire ai residenti (che pensavamo sarebbero stati oltre 5000) di avere il maggior numero di servizi a due passi da casa. Uno degli elementi essenziali fu, come ho detto, non costringere i residenti a usare l’auto. Ecco perché ciascun rione avrebbe dovuto avere dei servizi minori di quartiere, mentre la rete dei servizi principali si sarebbe dovuta distendere in una forma diciamo così tentacolare, i cui prolungamenti sarebbero dovuti arrivavare a toccare tutti gli angoli della lottizzazione. Nessuno si sarebbe dovuto sentire distante dai servizi.

A questo proposito: molti Poggini si sono spesso lamentati del fatto che, in realtà, non esista una vera a propria rete dei servizi. I pochi servizi che sono stati realizzati sono scollegati e distanti fra loro vari chilometri, il che fa fallire in parte l’obiettivo che vi eravate posti, di realizzare una lottizzazione nella quale non fosse indispensabile prendere l’auto.

Il fatto è che la rete di servizi che avevamo progettato non è stata realizzata, ma, appunto, ne sono stati realizzati solo dei brandelli, tra loro scollegati, che hanno fatto perdere di vista il disegno complessivo.

Ma perché –si chiedono in molti- non pensaste di concentrare tutti i servizi in una sola area centrale?

Per due ragioni: la prima è che, molto semplicemente, non era possibile, non c’erano zone pianeggianti così estese da poter concentrare tutti i servizi che volevamo realizzare. Le uniche zone pianeggianti erano quelle poste lungo il tratto nord dell’Anello Bellavista, dove infatti prevedevamo di concentrare la maggior parte dei servizi, e quelle dove progettammo la zona sportiva. Il resto dei servizi dovemmo pianificarli, come ho detto, l’uno di seguito all’altro in una serie di bracci che avevano lo scopo di collegare ogni rione con la rete dei servizi, in modo che non ci fossero dei quartieri di sole abitazioni, che avrebbero rischiato di diventare, come suol dirsi, dei quartieri dormitorio.

Quindi era impossibile concepire Poggio dei Pini come un borgo classico, con una sola piazza centrale e tutti i servizi attorno.

No, non era possibile, perché non stavamo progettando un borgo con un unico centro e pochi servizi, ma una vera e propria cittadina, con tanti servizi, che sarebbe stata inevitabilmente policentrica. Teniamo conto del fatto, poi, che la lottizzazione si estendeva su una superficie importante, oltre 600 ettari, con molti lotti previsti anche sulle montagne: una estensione e una struttura che non si adattavano allo schema classico dei borghi medievali. I borghi medievali sono concentratissimi, il vantaggio di avere tutto vicino va a scapito di tutto il resto, ad esempio non vi possono essere ampi parchi, il che era l’opposto di ciò che volevamo realizzare. Insomma: se vuoi realizzare una città giardino dove i lotti privati e gli spazi comunitari abbondano di estese aree verdi, non puoi contemporaneamente pretendere che le distanze siano contenute.

Di qui la necessità di organizzare i servizi in una estesa struttura tentacolare.

Esattamente.

Quindi il problema è che, non essendo stata realizzata l’originaria rete dei servizi, oggi abbiamo pochi servizi sparsi e scollegati. Perché, secondo te, non furono realizzati?

Questo non lo so, perché non ho partecipato alle scelte amministrative dei decenni successivi: probabilmente l’insediamento di nuovi soci non è stato tanto ampio o tanto intenso da far mettere insieme le ricorse necessarie a realizzare tutto. O forse non c’è stata la capacità o la volontà o la possibilità di coinvolgere investimenti privati per la realizzazione di nuovi servizi.

Come si potrebbe risolvere il problema?

Ricucendo la rete con servizi integrativi che ancora mancano e con un buon sistema di marciapiedi, piste ciclabili, parchi attrezzati. Non avrebbe più senso, al giorno d’oggi, pianificare tutti i servizi che immaginavamo, perché la popolazione del Poggio si è assestata attorno ai 2000 abitanti, Capoterra e Cagliari sono meglio collegate e, insomma, non c’è più bisogno di una cittadina autosufficiente. Però servono sicuramente nuovi servizi, se vogliamo scongiurare il rischio dormitorio.

Nel progetto originario c’erano addirittura dei grattacieli…

Sì, la legge obbligava le cooperative a prevedere, nelle lottizzazioni, delle cubature da destinare al’edilizia popolare, il che era giusto, a mio parere, perché favoriva l’integrazione delle classi sociali e non relegava le famiglie meno abbienti in ghetti. E piuttosto che spalmare queste cubature sul territorio, consumando il verde, pensammo di concentrarle in quattro grandi torri, le quali, però, prevedevano anch’esse, ogni tot piani, dei grandi piani terrazza, con giardini pensili. Oggi c’è chi le spaccia come idee originalissime, ma quel tipo di grattacieli li avevamo già progettati cinquant’anni fa. E personalmente penso che sia stato un errore non averli realizzati.

Questo tema dell’integrazione sociale era centrale, in quegli Anni Sessanta.

Sì, e le cooperative erano uno degli strumenti per agevolare l’integrazione. Non pensavamo a una Beverly Hills per ricchi, con ville sfarzose. E infatti avevamo immaginato dei tipi edilizi molto semplici, senza velleità e senza individualismi. Lo stesso regolamento edilizio aveva l’ambizione di guidare le scelte dei soci verso dei modelli edilizi comuni. Non volevamo che le case fossero tutte uguali, ma che fossero tutte simili, semplici e funzionali, dei luoghi tranquilli dove far crescere figli e nipoti, dove ci fossero molti luoghi di aggregazione e un alto coefficiente di verde. Tutto questo era il prodotto di una visione non solo urbanistica ma appunto sociale, quasi antropologica. Avevamo anche elaborato un lungo questionario, nel quale chiedevamo ai soci quali esigenze avevano, quali ritmi di vita, come avrebbero voluto il giardino, la sala da pranzo, la camera da letto, con quale esposizione, con quali materiali, con quale colore. Oggi la chiamerebbero progettazione partecipata. Il fatto è che noi non volevamo realizzare una semplice lottizzazione ma una vera e propria comunità nuova. E devo confessare che dopo i primi anni di grande entusiasmo ci furono segnali di decadimento di quella spinta ideale, segnali che fecero allontanare alcuni di noi.

Vuoi dire che lo spirito cooperativistico/comunitario si perse?

No, questo sarebbe eccessivo e forse ingiusto. Mi sembra che ci si sia sempre spesi per mantenere vivo quello spirito, però è innegabile che per molti aspetti sia prevalso un certo individualismo, che si è reso evidente, ad esempio, nel progressivo abbandono delle linee guida architettoniche.

E’ vero che una rivista americana di urbanistica citò il progetto di Poggio dei Pini come esempio di città giardino?

E’ vero. Ma purtroppo non la ritrovo più!

Elemento essenziale del Poggio: il verde. Quale approccio aveste al paesaggio?

Fin dall’inizio ci ponemmo l’obiettivo di realizzare una città giardino modello, che avesse un altissimo coefficiente di verde e il cui disegno rispettasse le linee naturali del paesaggio. In Natura non esistono le linee perpendicolari e chi disegna una lottizzazione usando gli angoli retti massacra il paesaggio, lo fa per massimizzare le aree edificabili ma questo a noi non interessava, perché ciò che perseguivamo non era il profitto imprenditoriale ma la qualità del luogo che stavamo creando, nel quale volevamo andare a vivere. In questo fu fondamentale il disegno delle strade: se si guarda la rete stradale di Poggio dall’alto è diversa da tutte le altre, sembra un ricamo. Perché cerca di seguire quanto più possibile le curve di livello: una cosa che non era affatto semplice, in quel tempo. Per avere una carta in scala adeguata dovemmo produrci delle restituzioni di voli aerei americani degli Anni Quaranta! Per me, però, era essenziale che le strade serpeggiassero, consentendo a chi le avesse percorse di scoprire gradualmente gli scorci, senza fretta, godendosi il paesaggio. Mi ricordo che per realizzare le strade chiamammo un certo Cordeddu, che utilizzava una vecchia D8 a funi, e ogni tanto si lamentava chiedendomi perchè tutte le strade serpeggiassero, invece che andare dritte! Lui avrebbe sbancato, ma non era quello che volevamo.

Una curiosità: ma perché la numerazione della strade è così complessa? Una volta Antonello De Candia, altro socio storico, che aveva lavorato in tutto il mondo, affermò che fosse un sistema di numerazione tipico dell’Australia. Ma chi lo scelse?

Sinceramente non ne ho idea. Ricordo che l’idea iniziale era quella di dare alle strade nomi di fiori o di uccelli. Trascorremmo notti e notti a discutere tra chi voleva nomi di fiori e chi voleva nomi di uccelli.

Forse i numeri furono un compromesso tra fiori e uccelli…

Forse.

In molti incroci i lotti non sono a ridosso della strada, ma sono un po’ arretrati: immagino che anche questo fosse voluto.

Certamente, per dare una sensazione di spazio, un ambiente naturale nel quale gli edifici non si sono imposti in maniera brutale ma hanno trovato una loro collocazione armoniosa.

Ecco, l’armonia. Che non significa mimetismo.

No, certo. Urbanizzare, edificare, sono sempre atti di trasformazione dell’ambiente naturale, non si deve essere ipocriti. Però si può e si deve inserire gli elementi architettonici in maniera armoniosa, rispettosa delle linee e delle dinamiche naturali.

Tutto questo si è visto in occasione della drammatica alluvione del 2008: le acque dei torrenti in piena hanno portato giù tonnellate di materiale attraversando la lottizzazione come treni in corsa ma hanno fatto pochissimi danni, a due o tre case: nulla in confronto a quanto accaduto alle altre lottizzazioni. Le vittime sono state invece ai piedi della diga. Tu non avevi previsto l’attraversamento del Rio in quel punto, ma più a valle, dov’è stato realizzato solo pochi anni fa.

L’evento alluvionale del 2008 è stato di una tale eccezionalità che nessuna progettazione urbanistica avrebbe potuto prevederne e impedirne le conseguenze. Io avevo immaginato il ponte nel punto più logico, quello più alto e più stretto, ma questo non significa che non fosse possibile e naturale mantenere anche l’attraversamento ai piedi della diga e continuare a utilizzarlo, come poi è stato fatto. Il problema è che l’entità dell’ondata è stata tale da scavalcare la diga, travolgendo tutto ciò che c’era a valle.

Un’ultima curiosità: si parla spesso di un architetto vietnamita, che collaborò al disegno della lottizzazione.

E’ vero. Si chiamava Nguyen Tuon Hung. Lo conobbi a Roma e siccome era molto bravo lo invitai a Cagliari e per qualche mese collaborò al progetto. Alcuni rionincini sono usciti direttamente dalla sua penna. Si trasferì poi a Parigi, dove ha vissuto e lavorato come architetto. Ci siamo sentiti spesso, negli anni, è venuto a trovarmi molte volte, siamo rimasti amici.

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